Le forme dell’arte

L’anno scorso, mimetizzate fra le centinaia di opere esposte nei 5.500 metri quadri di miart, c’erano anche le tre del ventisettenne colombiano Oscar Murillo, in vendita presso una galleria londinese. Ognuna costava fra i 20 e i 30 mila euro, ma solo qualche mese dopo, le quotazioni di Murillo hanno avuto un exploit in asta a New York arrivando ai 300 mila euro.

Questa storia ci serve per dire due cose: la prima è che Milano è tutt’altro che una piazza secondaria come erroneamente suppongono gli snob che vanno a fare acquisti a Frieze (spendendo di più); la seconda è che coloro che hanno comprato il suddetto Murillo (fra i quali un milanese) non sono stati lungimiranti o sapienti, ma semplicemente fortunati e che quella stessa fortuna può venire a mancare magari fra due anni, dovesse Murillo cadere in disgrazia negli insondabili capricci del gusto.

L’arte, contrariamente a quanto afferma la retorica della vulgata, non è infatti né un valore assoluto né solido. È invece tanto labile quanto il gusto e quanto una speculazione finanziaria su cui nessuno, nemmeno il più ferrato dei broker potrebbe scommettere sul lungo termine. Troppe sono le variabili, comprese quelle psicologiche, che influiscono sui mercati. Chi può essere certo di come sarà per esempio il cambio euro dollaro da qui a due anni, con in mezzo le elezioni europee, turche, americane, la crisi ucraina, siriana, il prossimo crollo dell’Argentina e via dicendo?

La stessa incertezza aleggia sul mercato dell’arte. Se si compra per speculare si rischia. Ma se invece si compra perché ci si innamora di un’opera così tanto da volerci condividere la casa, allora la scelta sarà giusta. Perché saremo felici e magari, in seconda battura, anche economicamente fortunati.

Uno dei nostri galleristi dall’autorevolezza ormai storicizzata, Giorgio Marconi, ama dire che «nel grande caos dell’era post finanziaria, l’arte ha il pregio di rimanere sempre quella, catalogata e classificata, e quindi batterà moneta».

E ha ragione: una tela di Lucio Fontana è una tela, solida, concreta, sempre la stessa fotografata alla pagina tot del catalogo generale dell’artista e da lì non si scappa. Non ce ne saranno altre oltre a quelle. È un oggetto tangibile, riconoscibile, numerabile, identificabile. E tuttavia anch’esso è un valore non certificabile al cento per cento, come non lo sono nemmeno i titoli di stato americani.

Per chiarire il concetto, faremo degli esempi eclatanti. Quello di Monet e delle sue ninfee, per puntare in alto, che raggiunsero l’apice del successo negli anni Ottanta del Novecento. Subito dopo la morte dell’artista, proprio quando nel 1927 lo Stato francese dedicava alle ninfee addirittura un museo a Parigi (l’Orangerie), quei quadri erano invece diventati totalmente fuori moda. Il pubblico degli anni Venti si era infatti prima convertito al gusto del Cubismo e poi a quello del ritorno all’ordine che riportava in auge proprio i volumi dissolti dall’Impressionismo.

Ma persino certi capolavori che siamo abituati a pensare come paradigmi assoluti di bellezza come il David di Michelangelo non lo sono sempre stati. Dello stesso Michelangelo il Mosé o il Bacco del Bargello hanno goduto di maggior fama almeno fino al 1909, quando il David fu valorizzato grazie alla nuova collocazione in fondo al percorso dei Prigioni nelle gallerie dell’Accademia, al termine di una fuga prospettica che lo esaltava come un «macho liberatore». E che dire di una superstar di oggi, la Ragazza con l’orecchino di perla di Johannes Vermeer? Negletta per oltre trecento anni e portata sugli altari dell’adorazione museale dal romanzetto di fantasia di un’americana, Tracey Chevalier, che si inventò una liaison fra la ragazza e l’artista, e dalla potenza da guerra del cinema hollywoodiano con il volto di Scarlett Johansson.

Possibile che di quel «capolavoro» nessuno si fosse accorto prima? Nemmeno un estimatore di Vermeer come Proust che alla Ragazza con l’orecchino aveva preferito La veduta di Delft?

È possibile perché, appunto, l’arte non è un valore assoluto, ma una questione di gusto e persino di moda. Stia attento il Murillo di oggi perché lo stesso capitò al Murillo di ieri: nell’Ottocento osannato dalle romantiche donne inglesi come il Raffaello spagnolo e oggi considerato dolciastro come una crema catalana.

Morale blasfema: l’unico consiglio che vale per gli acquisti d’arte è lo stesso che San Paolo dava ai Corinzi: prima di tutto vi sia l’amore.

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